ACCORDI DI CONVIVENZA

A prescindere dalle disposizioni specifiche che disciplinano la convivenza, è opportuno sottolineare che, la stessa è tutelata dalla Costituzione Italiana, direttamente dall’articolo 2 (inserita quindi tra i principi fondamentali) come “formazione sociale” all’interno della quale si svolge la personalità dell’individuo.

Parte della dottrina negava in passato che vi fosse una tutela costituzionale della famiglia di fatto, sul presupposto che l’articolo 29 della costituzione “riconosce i diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio”.

La previsione dell’articolo 29 equivale ad un riconoscimento espresso di una forma di famiglia ma, non vieta che possano esservi altre forme di famiglia, tutelate come “formazioni sociali”, seppur non inserite nel contesto dell’istituto matrimoniale.

Sicuramente, la “famiglia di fatto”, intesa come convivenza, è stata in passato etichettata come istituzione meritevole di una tutela inferiore, rispetto a quella fondata sul matrimonio. Basti pensare che, sino al 1969 era punito dall’articolo 560 del codice penale il reato di concubinato.

La stessa definizione “more uxorio”, (ovvero “secondo il costume matrimoniale” “quasi come un matrimonio”), lascia intendere una valutazione della famiglia di fatto, come una forma di “pseudo matrimonio”, quando in realtà, il fatto di propendere per una convivenza piuttosto che per un matrimonio, spesso risiede in una scelta consapevole delle parti, diretta proprio ad evitare di sottomettersi alle norme giuridiche previste in materia di matrimonio.

Veniamo ora ad analizzare nello specifico gli accordi di convivenza.

Come noto, non esiste una legge che disciplini in modo organico e sistematico la famiglia di fatto e, tutte le norme applicabili sono o contenute all’interno di leggi o in sezioni dei codici dedicate ad altri istituti oppure. si tratta di principi ormai consolidatesi nel tempo, elaborati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. Sono stati fatti diversi tentativi diretti ad elaborare un testo organico che disciplinasse la famiglia di fatto.

Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri nel Febbraio 2007 (08.02.2007) e poi abbandonato, aveva tra le altre cose, omesso (forse consapevolmente) ogni riferimento ai contratti di convivenza e alla relativa possibilità per i partner di stipulare contratti diretti a disciplinare sotto un profilo patrimoniale, la convivenza.

Negli ultimi tempi, si discute vivacemente sull‘opportunità di regolamentare in modo più o meno dettagliato le cosiddette unioni di fatto, vale a dire quelle convivenze stabili tra due soggetti non legati tra loro da vincolo matrimoniale, possa trattarsi di matrimonio celebrato con rito civile o concordatario.
Prescindendo da quelli che ad oggi rappresentano esclusivamente dibattiti dottrinali, esaminiamo se e come, vengono attualmente disciplinati i rapporti personali e patrimoniali tra i conviventi more uxorio.

Innanzitutto è doveroso, a scanso di equivoci, rilevare che la mancata celebrazione del matrimonio non incide sostanzialmente sui diritti spettanti ai figli nati dai genitori non coniugati i quali, per espressa disposizione di legge, sono equiparati in tutto e per tutto ai figli nati da coppie coniugate.

Di conseguenza oggi, a differenza di ciò che avveniva in passato, la distinzione tra figli naturali e figli legittimi non avrebbe più ragione di esistere. (sarebbe auspicabile che scomparisse anche la definizione “figli legittimi”, in quanto il termine legittimo si contrappone a qualche cosa di “illegittimo” e riferire il concetto di illegittimità allo status di figlio, mi sembra quanto mai discriminatorio e soprattutto obsoleto.

L’equiparazione dei diritti significa, d’altro canto, equiparazione dei doveri a carico dei genitori nei confronti della prole rispetto agli obblighi dei genitori coniugati.

Ci riferiamo in particolar modo all’obbligo di educare, istruire e mantenere i figli.
Così come nelle cosiddette famiglie tradizionali, anche all’interno delle famiglie di fatto, ciascuno dei genitori ha l’obbligo giuridico di mantenere i figli proporzionalmente alle proprie sostanze ed al reddito.
Stesso obbligo permane nel caso in cui la coppia decida di porre fine alla convivenza come, d’altra parte, accade in caso di separazione o divorzio tra genitori coniugati.

Per ciò che concerne i diritti ereditari, possiamo addirittura affermare che, in via diretta, i figli sono maggiormente tutelati nel caso in cui i genitori non siano legati da vincoli matrimoniali; infatti, in assenza di coniuge l’intero patrimonio del genitore deceduto, sarà attribuito al figlio o ai figli mentre, ove il genitore al momento del decesso dovesse risultare coniugato, parte del patrimonio verrebbe necessariamente assegnato al coniuge superstite (in quanto legittimario).

Il problema va pertanto focalizzato sul rapporto personale tra i soggetti che decidono di iniziare una convivenza.
Ritengo personalmente che la questione della regolamentazione delle unioni di fatto sia stata spesso enfatizzata ed esasperata sino ad erigerla a vera e propria battaglia politica, il tutto incentrato sull’elemento base dell’istituto matrimoniale e sul significato che la Costituzione Italiana attribuirebbe al concetto di famiglia.
Ma a ben vedere, molte delle problematiche e delle questioni giuridiche che possono nascere all’interno di una coppia non sposata, sono disciplinate e trovano la loro soluzione all’interno del nostro diritto positivo e di norme che se pur non create ad hoc per disciplinare i rapporti tra conviventi, ben si adattano ad essere applicate in molteplici casi soprattutto in assenza di una disciplina specifica della materia.

Pertanto, attualmente, il problema reale diventa quello dell’individuazione di tali norme e semmai, quello di una raccolta organica di tali disposizioni anche al fine di renderle accessibili e conoscibili ai non addetti ai lavori.
Ritengo che molte delle problematiche aventi risvolto giuridico relative ad un rapporto di fatto possano essere regolamentate pattiziamente tra le parti, attraverso veri e propri contratti denominati “contratti di convivenza”.
Il punto focale, è quello di identificare quali siano i limiti e quale sia l’estensione massima di tali accordi.
Ma il problema, in effetti, non è poi tanto differente da quello che gli operatori del diritto affrontano ogni giorno nell’ambito della propria attività ermeneutica; si tratta cioè di capire fino a che punto si possa spingere l’autonomia negoziale delle parti e quali siano i diritti indisponibili sui quali non è ammesso incidere ad opera delle parti. Si tratta anche di comprendere se ed entro quali limiti le norme dettate dal legislatore in campo contrattuale siano adattabili ed applicabili ad una materia che senza dubbio presenta aspetti peculiari rispetto ad un rapporto contrattuale strettamente inteso.
Partiamo quindi dal presupposto che tutta la materia relativa all’affidamento dei figli, all’educazione e al mantenimento degli stessi è completamente sottratta all’autonomia negoziale delle parti, nel senso che, qualunque tipo di clausola che le parti intendessero inserire in un contratto di convivenza, diretta a disciplinare tale materia, sarebbe priva di effetto o addirittura nulla, ove scaturisse da tale clausola un pregiudizio potenziale o effettivo per i figli o emergesse un contrasto con disposizioni dettate a tutela dei minori.
L’autonomia negoziale della coppia di fatto in materia di affidamento dei minori ed esercizio della potestà, si può esclusivamente manifestare sotto forma di accordo, che le parti al momento della cessazione della convivenza, sottopongono al giudice minorile sotto forma di ricorso, al fine di ottenerne un sorta di “omologa”, al ricorrerne dei presupposti. Si tratta della stessa forma di autonomia negoziale riconosciuta ai coniugi, nel caso in cui decidano di separarsi mediante un ricorso per separazione consensuale (in passato soprattutto in dottrina alcuni autori negavano addirittura l’omologabilità degli accordi tra i conviventi i materia di affidamento dei figli, a seguito della rottura del rapporto sentimentale).
Definire un accordo di convivenza come “contratto”,  introduce un altro aspetto saliente della questione. E cioè la natura contrattuale dell’accordo e la sua appartenenza alla categoria dei contratti atipici, che le parti possono stipulare, purché tali contratti siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela (articolo 1322 comma 2° del codice civile).
Quindi, se definiamo contratto l’accordo tra i conviventi, dobbiamo necessariamente dedurre che da esso nascono delle obbligazioni giuridiche e che esso ha forza di legge tra le parti. Ma ne ricaviamo anche un altro principio e cioè, quello della necessità che le disposizioni ivi inserite e le obbligazioni dedotte abbiamo natura direttamente o indirettamente patrimoniale.
Questo comporta necessariamente l’impossibilità o l’inutilità di inserire in un contratto di convivenza, disposizioni che non abbiano una valenza patrimoniale; mi riferisco in particolare all’obbligo di fedeltà, di coabitazione, di professare una determinata fede, ecc.
In particolare:
l’obbligazione di fedeltà oltre a non avere il carattere della patrimonialità, non sarebbe ammissibile anche per altri motivi, tra cui l’impossibilità di prevedere una sanzione in caso di inadempimento ed il contrasto di una siffatta obbligazione, con principi di rango superiore, anche sotto il profilo Costituzionale, tra cui il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e la propria libertà sessuale.
Stesso discorso per l’obbligo di coabitazione il quale, pur essendo uno dei presupposti ed elementi essenziali della convivenza, non potrebbe essere previsto all’interno di un contratto quale obbligo specifico e ciò, da una parte per la mancanza del requisito della patrimonialità e dall’altra, perche tale clausola si porrebbe in contratto con diritti di rango Costituzionale tra cui quello relativo alla libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16). Oltretutto, la coabitazione non può essere inserita quale obbligo specifico, in quanto essa rappresenta uno dei requisiti essenziali del contratto, in mancanza o al venir meno della quale, la convivenza si scioglie. 
Allo stesso modo sarebbe affetta da nullità una clausola che impedisse o limitasse in qualche modo la liberà delle parti di interrompere unilateralmente la convivenza. Al contrario, se impostiamo il contratto di convivenza come contratto a tempo determinato, non sarà possibile il recesso unilaterale.

LA FORMA
Sulla forma del contratto di convivenza, vigendo nel nostro ordinamento il principio della libertà di forma, le parti possono scegliere quella più opportuna, posto che, se nel contratto sono inseriti negozi che necessitano ab substantiam della forma scritta, tale forma dovrà essere adottata anche in riferimento al contratto di convivenza. Solitamente si decide in qualche modo di formalizzare una convivenza; sarebbe improbabile e grottesco ricorrere ad una forma che non rivesta quanto meno i connotati della scrittura privata. La maggior parte dei contratti di convivenza vengono redatti in forma scritta. Sul problema della data certa, le soluzioni sono molteplici. Si può andare dalla semplice spedizione reciproca di lettera raccomandata contenente il contratto, sino alla notifica del contratto mediante ufficiale giudiziario. Ovviamente, la forma più opportuna al fine di conferire data certa al contratto è la scrittura privata autenticata da un notaio. In questo modo, potrà essere risolto anche il problema dell’autentica delle sottoscrizioni (problema da non sottovalutare nel caso in cui una delle parti, intenda in caso di contenzioso disconoscere la propria firma). E’ opportuno comunque sottolineare che, la scrittura privata autenticata è idonea a conferire prova certa della provenienza dell’atto da parte dei sottoscrittori ma non è certamente uno strumento di prova dell’effettività della convivenza.  La convivenza è una situazione di fatto che potrà essere provata o desunta diversi elementi combinati. A tale fine rilevano, mezzi di prova quali la testimonianza, la confessione oppure prove documentali quali, le risultanze anagrafiche (residenza, stato di famiglia), le ricevute di pagamento delle bollette (condominio, gas, luce), le ricevute di eventuali spese di ristrutturazione o di arredamento della casa comune, i contratti di locazione e di comodato e anche lo stesso contratto di convivenza, il quale comunque come sopra esposto, non potrà mai essere l’unico elemento diretto alla dimostrazione dell’effettività della convivenza neppure quando stipulato con scrittura privata autenticata.

Vorrei rilevare che ad oggi, difficilmente vengono stipulati accordi di convivenza in quanto, la maggior parte delle coppie non sposate, ma anche molti operatori  del settore, non conoscono in modo approfondito la normativa e quali sono le clausole ammissibili o vietate in un contratto di convivenza. Questo disinteresse pratico verso i contratti di convivenza, è forse giustificato dal fatto che, non esiste una normativa specifica sui contratti di convivenza, né una raccolta sistematica ed organica di norme che regolamentano la famiglia di fatto. Le disposizioni che legittimano la sottoscrizione di un contratto di convivenza, come abbiamo prima esposto, sono inserite all’interno delle leggi vigenti, nell’ambito di sezioni che regolamentano temi ed argomenti diversi.

 

LA DURATA DEL CONTRATTO
La durata del contratto può essere a tempo determinato o indeterminato. Si badi bene di non confondere la durata del contratto con la durata della convivenza, in quanto la convivenza (la cui durata determinata non si potrebbe inserire nel contratto) può essere certamente più breve o più lunga della durata contratto e, mentre è possibile far cessare unilateralmente in ogni momento la convivenza, per quanto riguarda il contratto se esso è a tempo determinato non sarà possibile un recesso unilaterale (a meno che non siano previste specifiche ipotesi di recesso o risoluzione). Inoltre come già esposto il contratto, la maggior parte delle volte dispone anche per il periodo successivo alla convivenza e pertanto, difficilmente coincidono i termini di durata del contratto e della convivenza.
Le statistiche ci dicono che nel 2003 le coppie di fatto in Italia erano circa 540.000. Oggi il numero è sensibilmente aumentato; pertanto una norma che introduca una disciplina specifica diretta a regolamentare i diritti delle coppie di fatto si rende comunque opportuna. Coloro i quali sono contrari all’introduzione di una norma che disciplini in modo specifico le coppie di fatto, spesso argomentano la loro tesi affermando che, sono le coppie stesse, nell’ambito della loro autonomia negoziale avendo deciso di convivere ma di non optare per il modello di famiglia fondato sul matrimonio, ad avere preferito un modello di vita non espressamente disciplinato da una normativa specifica. La loro scelta di non assoggettarsi alle regole e alle leggi del matrimonio, sarebbe indicatrice di una volontà di sottrarsi alla disciplina organica prevista per tali istituti e dell’intenzione di agire nell’ambito di una sfera di assoluta autonomia, nel rispetto e nell’applicazione dei principi generali dell’ordinamento.

Specie quando non ci sono i figli, non voler inquadrare il proprio rapporto entro i rigidi confini del matrimonio significa volere agire nell’ambito della più completa autonomia sentimentale e negoziale (senza imposizioni, senza condizionamenti e senza regole che non siano quelle generali che qualsiasi cittadino deve comunque rispettare).

Veniamo ora ad analizzare quelle disposizioni o clausole che possono essere inserite all’interno di un contratto di convivenza. Per facilitare la comprensione abbiamo, in calce redatto un modello di accordo di convivenza.
Ci sono due generi di disposizioni che possono essere inserite nel contratto (ferma restando come già accennavo, la necessità che le obbligazioni abbiano natura patrimoniale):

  1. Il primo genere di obbligazioni, è rappresentato dagli obblighi che le parti hanno in costanza di convivenza (vale a dire tutti gli impegni che la coppia assume firmando il contratto e che perdurano sino a quando vige la convivenza): questo genere di disposizioni è necessario affinché si possa configurare un contratto di convivenza.
  2. Il secondo genere di obbligazioni (il cui inserimento è eventuale), è costituito dagli obblighi che le parti assumono reciprocamente relativamente ed in previsione dell’ipotesi futura ed incerta che la convivenza cesserà (è opportuno ribadire che non potrebbe mai ipotizzarsi una clausola che preveda una durata determinata della convivenza né una condizione risolutiva della stessa, mentre è ipotizzabile un obbligo a carico delle parti, nascente in occasione della cessazione della convivenza e con una durata prestabilita).

ACQUISTO DI BENI IN COMUNE
Nulla questio sulla possibilità per i conviventi di acquistare beni immobili o mobili in situazione di comproprietà, eventualmente anche concordando sui beni stessi l’attribuzione di quote di proprietà differenti. Certamente non sarà possibile adottare un regime patrimoniale quale quello della comunione dei beni, previsto per le coppie coniugate e questo, soprattutto, in virtù dell’impossibilità di avvalersi di un idoneo sistema di pubblicità del regime, necessario per l’opponibilità a terzi (annotazione). Nell’ambito della coppia di fatto, le parti potranno comunque impegnarsi ad acquistare in futuro, eventuali e determinati beni, in regime di comunione ordinaria, stabilendo se del caso, quote diverse di comproprietà. Ogni obbligazione in tal senso, avrà ovviamente efficacia obbligatoria e non reale; ciò significa che a differenza di quanto avviene per gli acquisti effettuati dai coniugi in regime di comunione legale, l’acquisto del diritto di proprietà non avverrà automaticamente in capo ad entrambi soggetti per il solo fatto di aver stipulato l’atto di acquisto ma, sarà necessario l’intervento di entrambi i partner all’atto di acquisto ed apposita dichiarazione espressa, attraverso la quale, ognuno dei partner acquisterà una quota del bene (in regime di comunione ordinaria).

 

LA SUCCESSIONE
Per quanto concerne i diritti successori, non essendovi attualmente alcuna norma che attribuisce diritti in tal senso al convivente superstite, i soggetti hanno la piena libertà di nominare erede l’altro coniuge mediante la redazione di un testamento all’interno del quale, venga disposto che una quota di eredità (o anche tutta, ove non siano lesi i diritti di soggetti legittimari), sia destinata al convivente superstite. Tali disposizioni non potranno comunque essere inserire nel contratto di convivenza ma, dovranno essere oggetto di uno specifico testamento redatto nelle forme prescritte dal codice civile; altrimenti si rischierebbe di incorrere nel divieto di patti successori, determinando la nullità della clausola.
Le parti possono altresì statuire sulle modalità di esercizio dei diritti sui beni acquistati in comune e sulla sorte di tali beni al momento del venir meno della convivenza. Sarà sufficiente inserire tali disposizioni all’interno del contratto di convivenza, il quale come tutti i contratti ha forza di legge tra le parti.
 
PARTECIPAZIONE DI CIASCUNA DELLE PARTI ALLE SPESE ORDINARIE E STRAORDINARIE
E’ assai frequente che, i conviventi indichino nel contratto anche la misura della partecipazione di ciascuno alle spese ordinarie e straordinarie, in base alle proprie capacità di reddito e sostanze e che, venga anche valutato ai fini della distribuzione degli “sforzi” familiari l’apporto di lavoro domestico prestato dal coniuge non lavoratore.
Su questo punto rileviamo che, mentre , l’articolo 143 prevede che i coniugi provvedano ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze (e quindi proporzionalmente), lo stesso principio non vige (per mancanza di un’espressa disposizione normativa – a meno che non si possa applicare un’estensione analogica -) per le coppie di fatto che, nell’ambito della loro autonomia negoziale sono libere di prevedere obblighi reciproci di assistenza e di mantenimento anche non proporzionali alle proprie sostanze e capacità reddituali.
Nella prassi, notiamo che in molti accordi di convivenza, vengono inserite anche disposizioni relative all’educazione dei figli; il problema della mancanza del carattere della patrimonialità di tali clausole è già stato affrontato, così come l’indisponibilità di tutti i diritti che riguardano la tutela, il mantenimento e l’affidamento dei minori. 
E’ pur vero che, in via di principio, la coppia può concordare un determinato indirizzo educativo relativo alla prole, purché ovviamente tali disposizioni non violino norme di legge inderogabili e non siano contrarie all’interesse dei minori. In tal caso, la norma avrà un contenuto non vincolante ma esprimerà unicamente una sorta di input morale della coppia (una sorta di scelta di modello educativo). Non necessariamente la clausola dovrà ritenersi nulla in quanto, trattasi pur sempre di disposizione diretta a perseguire un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento.
Ulteriori previsioni, di natura programmatica e non vincolante, potranno concernere i più svariati settori, citando a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli accordi sulla scelta delle vacanze, sui viaggi, (una specie di dichiarazione di intenti).

SULLE SANZIONI PECUNIARIE IN CASO DI VIOLAZIONE DI OBBLIGAZIONI AVENTI CARATTERE PATRIMONIALE
A parere di chi scrive, le parti possono tranquillamente inserire nel contratto eventuali penali in caso di mancato rispetto delle statuizioni contrattuali suscettibili di valutazione economica, purché, le singole obbligazioni abbiano carattere patrimoniale, le obbligazioni siano sostanzialmente reciproche e non siano in contrasto con norme inderogabili di legge o non incidano su diritti di natura indisponibile. Ad esempio, una clausola contenente l’obbligo per il coniuge di concedersi sessualmente all’altro oltre ad essere nulla per contrarietà al buon costume, comporterebbe inevitabilmente la non sanzionabilità di un comportamento posto in essere in violazione della stessa, e ciò in quanto si tratta di diritto che non è suscettibile di divenire oggetto di pattuizione contrattuale. Lo stesso dicasi per un eventuale obbligo stabilito a carico delle parti di non trasferire la propria residenza in un determinato luogo; infatti una disposizione di tale natura striderebbe con il diritto alla libera circolazione garantito dalla Costituzione.
Il parametro di riferimento ed il limite invalicabile, è pertanto rappresentato dall’esistenza di diritti e di libertà che non possono essere oggetto di limitazione neppure con il consenso degli stessi interessati. Una disposizione che preveda una penale a carico del convivente che pone fine alla relazione prima di una determinata data sarebbe nulla in quanto, determinerebbe in primis una grave menomazione delle libertà della persona ed in secondo luogo, mancherebbe il requisito della patrimonialità, necessario affinché un’obbligazione possa essere dedotta in un contratto.
Ritengo inoltre che, anche in riferimento ad un eventuale obbligo di fedeltà sia molto difficile ipotizzare l’ammissibilità di una sanzione pecuniaria derivante dalla sua inosservanza, proprio in virtù della non disponibilità del diritto alla libertà sessuale e della natura non patrimoniale del diritto. (Diversamente il convivente tradito può agire in giudizio, qualora il comportamento infedele dell’altro abbia determinato un danno certo di natura anche non direttamente patrimoniale, quale potrebbe essere un danno alla vita di relazione). La clausola sull’obbligo di fedeltà, pur non avendo una vera e propria valenza giuridica (e ciò non solo per l’indisponibilità del diritto ma anche per la non patrimonialità dello stesso), può essere comunque inserita nel contratto (senza che ciò infici in alcun modo la validità dello stesso), come dovere di natura morale, ovviamente non sanzionabile giuridicamente.
L’aspetto che più di frequente spinge le parti a decidere di stipulare un contratto di convivenza, è la regolamentazione dei rapporti patrimoniali in previsione di una futura ed ipotetica rottura del rapporto. Queste disposizioni sono spesso orientate nell’assicurare al convivente più debole una forma di assistenza anche successivamente al venir meno della convivenza (e pertanto sono certamente ammissibili in quanto dirette a raggiungere scopi meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico – principio solidaristico della tutela del soggetto più debole - ). Si tratta di una forma assistenziale e di soccorso ritenuta certamente meritevole di tutela dal nostro ordinamento, anche in virtù del vincolo di solidarietà che ha unito due soggetti per un lungo periodo di tempo.
Ritengo che, nell’inserimento delle disposizioni contrattuali, sia sempre molto importante valutare clausola per clausola, l’aspetto sinallagmatico; vale a dire, la prestazione oggetto dell’obbligazione dedotta in contratto deve essere posta in corrispondenza biunivoca con un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, a carico dell’altro convivente. Il sinallagma contrattuale e l’esistenza di prestazioni valutabili da un punto di vista patrimoniale, consentono di conferire all’accordo di convivenza, piena valenza contrattuale.
Sulla base di quanto testé affermato, possiamo tranquillamente concludere che, pur in assenza di una regolamentazione organica della materia, la convivenza tra due soggetti può essere oggetto di specifico accordo tra le parti, mediante la stipula di un contratto di convivenza che, in quanto non contenente clausole contra legem, è pienamente valido ed ha efficacia di legge tra le parti. Il problema del riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto è pertanto, più teorico che pratico o forse oserei dire più politico / sociale che giuridico.
Gli aspetti più importanti che nettamente differenziano ad oggi il trattamento riservato alle coppie sposate rispetto a quelle di fatto, sono rappresentati dall’automaticità di alcuni diritti spettanti ai soggetti sposati, che vengono ad essi attribuiti per il solo fatto della celebrazione del matrimonio e che permangono anche successivamente all’eventuale scioglimento dello stesso. Ci riferiamo 1) ai diritti successori del coniuge, il quale rientrando tra i legittimari non potrebbe in alcun modo essere escluso dalla successione del coniuge deceduto ma al quale, anzi, è per legge riservata come quota legittima, una cospicua parte del patrimonio del coniuge deceduto; 2) alla pensione di reversibilità che spetta al coniuge supersite o anche al coniuge divorziato che al momento del decesso dell’altro beneficiava dell’assegno divorzile; 3) ad una quota spettante la coniuge divorziato sul trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge.
Ad un’attenta analisi rileviamo, come tali diritti possano essere attribuiti anche attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza tra soggetti non uniti in matrimonio, il quale preveda l’obbligo per il soggetto, di corrispondere all’altro convivente una parte del proprio TFR o l’obbligo di stipulare un’assicurazione (polizza vita) la quale stabilisca che, in caso di morte di uno dei soggetti, sia riservata all’altro una somma di denaro una tantum o sotto forma di vitalizio. Lo stesso discorso vale per i diritti successori; i partner possono tranquillamente fare testamento istituendo come erede l’altro convivente (sempre nel rispetto delle disposizioni sulla quota legittima).
Il punto di divergenza sostanziale tra le due forme di unione è, a parere di chi scrive che in caso di matrimonio, tali diritti sono attribuiti ai coniugi automaticamente e senza che sia necessaria la volontà ed il consenso dell’altro (che comunque viene prestato in occasione della celebrazione del matrimonio) mentre, in caso di convivenza, tali diritti devono essere espressamente previsti e attribuiti mediante la sottoscrizione di un contratto. Si diventa pertanto titolari in caso di matrimonio di alcuni diritti, per il solo fatto di essere sposati e tali diritti spesso permangono in capo ai soggetti anche successivamente allo scioglimento del vincolo. In effetti, con il matrimonio le parti limitano in modo sostanziale, una volta per tutte, la propria autonomia negoziale, da un lato rinunziando a taluni diritti, dall’altro divenendo titolari di altri.
Con il matrimonio, le parti sono maggiormente garantite da un punto di vista patrimoniale, potendo contare sull’obbligo a carico dell’altro coniuge di compiere una serie di prestazioni patrimoniali, anche successivamente allo scioglimento del vincolo. Ma a ben vedere, lo stesso risultato è ottenibile anche mediante un semplice accordo di convivenza. Ciò che cambia è la forma del consenso; nel caso di matrimonio prestato dinnanzi ad un Ministro di Culto o ad un Ufficiale dello Stato Civile; nel caso di accordo di convivenza prestato dinnanzi ad un notaio a semplicemente sottoscritto tra le parti.

NATURA DELLE OBBLIGAZIONI PATRIMONIALI INSERITE NEI CONTRATTI DI CONVIVENZA
Sulla natura delle obbligazioni, abbiamo già accennato al fatto che le obbligazioni non aventi carattere patrimoniale, nel caso in cui siano dirette a perseguire interessi meritevoli di tutela per l’ordinamento, sono ammissibili ma vengono considerate come semplici obblighi morali, privi del carattere dell’obbligatorietà e soprattutto prive di sanzione.
Mentre, per le obbligazioni di natura patrimoniale, una parte della dottrina tende ad inquadrarle nel genere delle obbligazioni naturali o altra parte come donazioni remuneratorie (articolo 770 codice civile – con la conseguenza dell’irrevocabilità anche in caso di ingratitudine); per altri si tratterebbe di vere e proprie obbligazioni contrattuali, le quali in virtù del carattere sinallagmatico, darebbero vita ad un vero e proprio diritto azionabile giuridicamente in caso di inadempimento. 
Il problema, oltre che sotto il profilo strettamente giuridico, è di particolare importanza ai fini dell’individuazione delle forme di tutela a favore del soggetto non inadempiente.
A mio giudizio, il problema andrebbe risolto caso per caso, valutando all’interno del singolo contratto, la singola clausola e verificando in particolare che, le obbligazioni previste siano realmente in funzione reciproca (in pratica se esiste o meno una corrispettività delle stesse).

LE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI ABITAZIONE “FAMIGLIARE” (sempre in assenza di figli)
Nel caso in cui le parti decidano di prendere in locazione un appartamento, possono benissimo scegliere di stipulare un contratto di affitto intestato ad entrambi (sempre previa accettazione del locatore) o di acquistare un appartamento in regime di comproprietà stabilendo se del caso, anche quote differenti di proprietà.
Altrimenti, se l’abitazione è già in proprietà esclusiva ad uno dei partner, si configura un contratto di comodato (non in esclusiva) dell’abitazione a favore dell’altro partner (e ciò sia in assenza di un contratto scritto che in presenza di un documento contrattuale, che comunque le parti sono sempre libere di stipulare). Lo stesso dicasi se è un terzo ad essere proprietario dell’immobile (spesso i genitori di uno dei partner); anche in tal caso si configura un contratto di comodato nei confronti della coppia (contratto che anche in questo caso può essere redatto per iscritto ma che può anche configurarsi per fatti concludenti).
Nel caso in cui l’immobile sia di proprietà di uno dei partner, essi possono stabilire che in caso di cessazione della convivenza l’abitazione possa essere concessa in uso all’altro partner (normalmente il partner più debole economicamente). In questo caso, si configura un contratto di comodato in esclusiva, sottoposto a condizione sospensiva della cessazione della convivenza. Tale disposizione, è assolutamente ammissibile in quanto è diretta, in un’ottica solidaristica, che dovrebbe sempre ispirare un’unione affettiva, alla tutela del partner più debole (ovviamente è opportuno nell’interesse di entrambi stabilire una durata prestabilita del contratto di comodato).
Se non è stipulato alcun contratto di comodato e la casa appartiene ad uno dei partner in via esclusiva e non ci sono figli è palese che, al momento della cessazione della convivenza il contratto (non scritto) di comodato tra il partner proprietario e quello non proprietario, si risolva automaticamente (e ciò sia per l’avverarsi della tacita condizione risolutiva della cessazione della convivenza e anche per la scadenza della durata non espressa del contratto, ravvisabile nella durata della stessa convivenza). Nel caso di risoluzione a qualsiasi titolo verificatasi, il partner già ospite assumerà la posizione di occupante senza titolo.

La trascrizione del matrimonio tra persone dello stesso sesso

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